Intervista Davide Lo Schiavo (alias David Stark)
Raccontaci brevemente il tuo percorso di studi, quando hai capito che ambito prediligessi?
Dopo la maturità classica ho intrapreso gli studi di Lettere e Filosofia e parallelamente ho lavorato come attore teatrale. L’apertura mentale derivata dal mondo del teatro, lo studio e la passione per il narrare hanno fatto sì che incontrassi il cinema in modo quasi naturale. Come imbattersi in una bellissima donna sul tram e da quel giorno esserne perdutamente innamorato.
Ho reso l’idea?
Dopo la laurea ho deciso di specializzarmi e mi sono diplomato alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano in Scrittura Cine Televisiva. Credo che quel tram sia stato per me lo studiare la storia del cinema, e la bellissima donna che mi richiama da allora è sempre davanti a ai miei occhi. Mi sono innamorato al punto da volerne fare il mio mestiere.
Come hai iniziato a scrivere, raccontaci del tuo primo lavoro da sceneggiatore.
Ho sempre scritto, sin da piccolo. Pinzavo insieme cinque fogli scarabocchiati a pennarello, uno con la storia del cane, uno con la storia della farfalla, un terzo con non so più che racconto, e li consegnavo personalmente ad amici e parenti, come fossero pietre preziose.
Ero una specie di mini scrittore-editore con auto distribuzione incorporata.
Da grande, la prima sceneggiatura che ho scritto è stata una commedia corale dal titolo Era Meglio Peter Pan. Un film che inizia come una commedia francese con dialoghi serrati e poi si trasforma in un road movie in giro per tutta l’Italia.
Ho lavorato con altri due colleghi, sotto la supervisione di Pasquale Plastino, uno dei più noti sceneggiatori italiani. Questa storia è piaciuta molto, ci siamo ispirati all’universo dei Coen e alla loro ironia cinica e particolare.
Scrivere in tre non è mai semplice. Ci sono continui scambi dipinti vista, anche molto accesi.
Si attraversano dei momenti in cui ognuno vorrebbe tirare dalla sua parte, e il carro rimane piantato nel fango.
A poco a poco, però, con molta pazienza, si riesce ad accendere quella fiammella comune, si azzecca quella battuta, quel colore giusto, e tre poetiche diverse tornano a collaborare magicamente. Grazie a questa prima esperienza ho imparato molto, ho iniziato a lavorare, ed ora riesco a gestire meglio tutti i miei nuovi progetti di scrittura.
Ho sempre scritto, sin da piccolo. Pinzavo insieme cinque fogli scarabocchiati a pennarello, uno con la storia del cane, uno con la storia della farfalla, un terzo con non so più che racconto, e li consegnavo personalmente ad amici e parenti, come fossero pietre preziose.
Ero una specie di mini scrittore-editore con auto distribuzione incorporata.
Da grande, la prima sceneggiatura che ho scritto è stata una commedia corale dal titolo Era Meglio Peter Pan. Un film che inizia come una commedia francese con dialoghi serrati e poi si trasforma in un road movie in giro per tutta l’Italia.
Ho lavorato con altri due colleghi, sotto la supervisione di Pasquale Plastino, uno dei più noti sceneggiatori italiani. Questa storia è piaciuta molto, ci siamo ispirati all’universo dei Coen e alla loro ironia cinica e particolare.
Scrivere in tre non è mai semplice. Ci sono continui scambi dipinti vista, anche molto accesi.
Si attraversano dei momenti in cui ognuno vorrebbe tirare dalla sua parte, e il carro rimane piantato nel fango.
A poco a poco, però, con molta pazienza, si riesce ad accendere quella fiammella comune, si azzecca quella battuta, quel colore giusto, e tre poetiche diverse tornano a collaborare magicamente. Grazie a questa prima esperienza ho imparato molto, ho iniziato a lavorare, ed ora riesco a gestire meglio tutti i miei nuovi progetti di scrittura.
Dicci la tua opinione sugli spazi e sugli strumenti più efficaci per divulgare i tuoi lavori,
siano essi prodotti teatrali o prodotti per lo schermo.
Oggi il mercato è sempre più competitivo e per un giovane autore non è facile inserirsi.
Ci sono molte scuole specializzate, maestri affermati, libri o corsi dove apprendere nozioni di scrittura cinematografica. Questo fa sì che ogni anno si riversino sulla piazza frotte di giovani autori a caccia di lavoro con diverse idee da proporre.
Il mondo dell’industry sta reagendo a questo aumento di storie offrendo dei nuovi spazi per il contatto tra autori e produttori. Parlo dei famigerati eventi di pitching, ovvero eventi di presentazione in cui si possono lanciare le proprie idee alle produzioni ed ai broadcast.
Questi spazi sono stati inseriti sempre di più sia all’interno dei festival cinematografici, sia all’interno di giornate ad hoc alle quali è possibile iscriversi liberamente. Ma bisogna sempre stare attenti. Soprattutto come giovani autori, si possono vivere momenti molto importanti, o momenti terribili. I pitch sono come vere e proprie audizioni, e come tali vanno preparati. Il mio consiglio è questo: siate sicuri di avere ben in mente il fuoco della vostra storia, e non sottovalutate l’allenamento nella presentazione. Molto spesso vedo ottime idee alle quali vengono segate le gambe perché sono presentate male. Provate e riprovate, cronometratevi. I pitch sono conversazioni lampo di massimo 10 minuti. Allenatevi ad essere chiari, sintetici, e se possibile mai freddi. Non demandate ad un tempo successivo quello che dovete mettere a punto prima dell’esposizione. Vi sarà d’aiuto e vi farà crescere, e non pensiate di perdere tempo. Saper fare innamorare di una storia, è un’arte fondamentale.
È necessario inoltre sapere fare una selezione della vetrina in cui andiamo a presentare un progetto. Non tutti accettano tutto. Bisogna cercare di essere specifici e capire quali possano essere le idee di cui il mercato è a caccia e in che particolare contesto presentarle. Non andremmo mai a presentare ad un gruppo di informatici la nostra ricetta della torta meringa, giusto? A meno che non siamo sicuri che uno tra loro non ne abbia una passione spasmodica, e quindi... Siate specifici, preparati e mirate bene l’obiettivo.
A buon intenditor...
Come è nata l'idea per il documentario Under the Rug, visto al Festival London International
Documentray Film Festival?
L’idea del documentario Under The Rug nasce da una conversazione molto accesa che Alì Younis, il regista del film, ebbe qualche anno fa con suo padre.
Alì sosteneva che nel suo paese ci fosse una grande ipocrisia di fondo: esisteva un odio tra confessioni religiose (musulmane) e tra cristiani e musulmani, ma la gente non ne parlava.
Questo per dare la parvenza al mondo di un paese in convivenza pacifica. L’immagine ricordava quella in cui all’arrivo inaspettato di un ospite, per fare bella figura si rassetta alla bell’e meglio mettendo lo sporco “sotto il tappeto”, (da qui il titolo under ther rug). Quel tappeto era rappresentato da una bugia comune che i siriani continuavano a ripetere, un “siamo tutti fratelli”, a cui nessuno credeva, ma che era sulla bocca di tutti. Lo sporco era l’odio camuffato in bugia.
E il bisogno di Alì era quello di mostrare questa bugia, mostrare che nella società siriana i giovani non volevano più odiarsi come le loro famiglie imponevano. Bisognava alzare il tappeto per spazzare via l’odio. Uno dei modi per farlo, era parlare dei matrimoni. In Siria un cristiano e una musulmana non possono sposarsi, così come non possono sposarsi musulmani di confessioni diverse. Possono essere amici, studiare insieme, frequentarsi, ma se si parla di matrimonio, di figli, di famiglia, i genitori e la società lo impediscono. E lo Stato? Pur essendo formalmente laico, è schiavo della legge religiosa. Dovevamo mostrare una storia che fosse testimonianza di questa condizione e siamo arrivati a raccontare la vita di alcune coppie su cui si è abbattuta la legge religiosa. Il film racconta la fuga di May, architetto e pittrice musulmana, che scappa in Olanda clandestina con suo figlio, dopo la morte del compagno cristiano in Siria, per evitare che i suoceri le tolgano il figlio. Insieme a lei raccontiamo anche di altre due coppie costrette a fuggire dalla Siria per poter vivere il loro matrimonio e il loro amore, due musicisti e due ragazzi. Ecco che come scrittore il mio intervento in questo film è stato quello di dare una progressione drammaturgica alle interviste realizzate dal regista a May e alle coppie.
Insieme ad Alì, abbiamo ripulito, tagliato, ricostruito, scritto e affinato la struttura del film.
Obiettivo è sempre stato quello di realizzare un film sulla Siria che non parli della guerra, dei bombardamenti, e del conflitto, ma che segua un filone meno noto che è alla base dei contrasti in quel paese: l’odio religioso. In questo film non è mostrata la guerra, ma la sua causa. È un film che testimonia quanto le nuove generazioni siriane lottino per liberarsi dai vincoli religiosi delle loro famiglie, e quanto invece, le vecchie generazioni, vi soccombano.
E potremmo definirlo un film leggibile anche da un punto di vista non solo siriano, ma universale, se paragoniamo l’odio religioso di quel paese alle nostre divisioni sociali, razziali e religiose.
Anche l’occidente nasconde l’odio sotto il tappeto, senza spazzarlo via mai.
Posso dire che sia uno dei lavori più interessanti a cui ho partecipato e a cui tengo di più.
Fortunatamente sta ottenendo un buon successo e speriamo di vederlo presto anche in Italia.
Qual è il processo creativo ed ideativo per scrivere una sceneggiatura di documentario,
cosa cambia da quella per fiction?
Un documentario si pone sempre una domanda e molto spesso è un faro a cui il documentarista cerca di rispondere con il sui film. A volte ci riesce, a volte no.
Però è sano che ci sia, ecco. Il documentario è un processo per cercare una verità che sta dietro alla possibile risposta a questa domanda. Può essere un documentario di inchiesta, ad esempio con lo stile di Michael Moore (Bowling a Colombine, Fahreneit 9/11), dove un regista o un personaggio si fa portavoce della domanda e con la sua presenza cerca la verità nel percorso del film, pone interrogativi scomodi, viaggia, si interroga, rompe le scatole. Oppure può trattarsi di un documentario di osservazione, come quelli meravigliosi di Wim Wenders (Tokyo Ga), o di Gianfranco Rosi (Sacro Gra, Fuocoammare), dove la domanda c’è sempre, e si cerca la risposta con il muto ascolto di ciò che accade, il documentarista sparisce e lascia che la vita si manifesti.
Oppure ci sono degli ibridi a metà strada tra fiction e documentario, come per Roberto Minervini (Louisiana), in cui le cose che accadono sono mediate da uno sguardo di ricostruzione, di ricerca, di interrogativo attraverso la selezioni di personaggi che vengono seguiti, e forse stimolati, a reagire a modo loro in un contesto reale.
In un progetto di fiction non è che non ci sia una domanda, anzi c’è eccome. Solo che la risposta non la cerchiamo in un’analisi dell’imponderabile o del reale avvenimento, ma nella scrittura di personaggi, relazioni, azioni, storie che rispondano a questa domanda.
Cosa vuol dire amare? Cosa vuol dire perdere? Cosa vuol dire vincere? Ogni autore di film di fiction ci guida con i propri personaggi ad una sua visione del mondo.
Quindi nel processo creativo abbiamo a che fare con la scrittura di molte cose che poi nel film non vediamo, ad esempio le backstories dei personaggi, ovvero la loro vita fino al momento del film.
Questa è una tecnica che usano anche molti attori a discrezione, ma per gli scrittori è fondamentale per conoscere davvero i loro personaggi. Nella preparazione di un personaggio di fiction ci si fa ispirare dal proprio vissuto, da quello dei colleghi, e dalla porzione di mondo che si è assaggiata fino ad allora. La fantasia è necessaria per creare storie profondamente umane, dove lo spettatore ci possa vedere se stesso, e dove possa rifugiarsi quando gli sfugge ciò che non capisce della propria vita.
In conclusione, dobbiamo essere fantastici quando scriviamo, sia in un documentario, o in una fiction, ma dobbiamo soprattutto cercare di essere onesti. E questo vuol dire che non possiamo giudicarci quando scriviamo perché sarebbe il più grosso torto a noi stessi e al nostro film. È bello
essere rigorosi, anche nella fantasia, e non prendersi in giro cercando di piacere.
Progetti per il futuro?
Sto cercando di portare avanti alcuni progetti di scrittura seriale oramai da qualche anno.
In particolare dopo una vittoria importante ad un concorso ho iniziato una fase di scrittura intensa che mi poterà a formalizzare un concept su un futuro distopico alla Black Mirror, da presentare ai maggiori broadcast.
Nel frattempo lavoro anche come drammaturgo teatrale. Uno dei testi che ho prodotto, Fuori dai Denti, sta riscuotendo un buon successo: è un monologo tragicomico sul mondo delle donne e sulle bugie che esse dicono a loro stesse.
Nel mirino poi c’è un nuovo lungometraggio crime di cui non posso rivelare molto e un bellissimo
documentario tra Italia e Svizzera.
Intervista curata da Silvia Sanna e Giulio Muto